Il 19 febbraio del 1944, il V Corpo Anfibio americano sbarcò sulle spiagge dell’isola di Iwo Jima, situata a poco più di 1’000 km da Tokyo ma facente parte del territorio metropolitano giapponese. La battaglia per la conquista dell’isola durò 5 settimane e risultò poi essere una delle più cruente e sanguinose dell’intera campagna dell’Oceano Pacifico.

Non è mia intenzione addentrarmi ora nei dettagli di tale battaglia, ma soffermarmi, invece, su quello che ne divenne il simbolo, ovvero la famosa fotografia scattata in cima al Monte Suribachi, diventata una delle più famose della storia.

Scattata da Joe Rosenthal il 23 febbraio 1945, la fotografia ritrae sei soldati americani nel momento in cui issano la bandiera a stelle e strisce sulla vetta del Suribachi, appena strappato ai giapponesi. Per questo scatto Joe Rosenthal vinse il premio Pulitzer alla fotografia e, nel 1954, da essa fu realizzato un monumento in bronzo, che si trova nei pressi del Cimitero Nazionale di Arlington, a Washington D.C.

La bandiera americana viene issata sulla cima del Monte Suribachi, a Iwo Jima. Sicuramente una delle immagini più famose della storia. (AP Photo/Joe Rosenthal) (AP Photo/Joe Rosenthal)

Forse non tutti sanno però, che l’immagine immortalata nella fotografia non ritrae il momento in cui la bandiera americana venne effettivamente issata per la prima volta in cima al Suribachi. Già, perché l’atto venne ripetuto una seconda volta. Ed è questo secondo evento, che Rosenthal immortalò con il suo apparecchio fotografico.

La mattina del 23 febbraio, al 2° Battaglione appartenente al 28° Reggimento del Corpo dei Marines, fu affidato il compito di conquistare il Suribachi, unico monte di rilievo presente ad Iwo Jima. Il suo comandante, tenente colonnello Chandler Johnson, dopo che due pattuglie mandate in avanscoperta lungo la strada che risaliva il Suribachi sul suo lato nord, avevano constatato che la resistenza nemica era debole, ordinò al tenente Harold Schrier di guidare un contingente, composto da una quarantina di uomini e di dirigersi alla vetta. Johnson consegnò a Schrier una bandiera americana grande 140 x 71 centimetri che aveva prelevato dal trasporto truppe Missoula, su cui aveva navigato il 2° Battaglione fino ad Iwo Jima e gli ordinò di issarla una volta raggiunta la cima del monte.

Partiti attorno alle 8.00 del mattino, Schrier e i suoi impiegarono oltre due ore prima di riuscire a raggiungere la vetta. La resistenza nemica fu, tutto sommato, inferiore alle aspettative. Alle 10.20 il tenente Schrier e il sergente Hansen, fissarono la bandiera ad un’asta metallica trovata nelle vicinanze e la issarono. Il momento fu immortalato in una fotografia scattata dal sergente Louis Lowery, fotografo della rivista ufficiale del Corpo dei Marines, Leatherneck Magazine. Alla vista della bandiera a stelle e strisce che sventolava sul Suribachi, tutte le navi presenti al largo fecero suonare le loro sirene e le urla dei soldati americani si levarono fragorose.

La foto che ritrae il primo alza bandiera in cima al Monte Suribachi, ad Iwo Jima (Louis Lowery)

Nel frattempo, sulla spiaggia dello sbarco aveva da poco messo piede anche il segretario alla marina James Forrestal, il quale, notato il tripudio che l’alzabandiera aveva scatenato tra le forze americane, chiese che la stessa gli fosse consegnata come ricordo. La richiesta arrivò fino al colonnello Johnson, che rifiutò categoricamente, in quanto voleva che la bandiera rimanesse al 2. Battaglione. Tuttavia, per accontentare il Segretario, Johnson ordinò al tenente Robert Tuttle di trovare un’altra bandiera e di portarla in vetta al più presto. Tuttle prese la bandiera che sventolava a bordo del mezzo da sbarco LST-779 ed ordinò ad una pattuglia di Marines di portarla in cima al Suribachi.

Mentre Tuttle eseguiva il compito affidatogli dal colonnello Johnson, era giunto al comando del 28. Reggimento il fotografo Joe Rosenthal, da poco sbarcato sull’isola, in compagnia del fotografo Bob Campbell e del cineoperatore Bill Genaust. Qui i tre appresero della missione compiuta dal contingente guidato da Harold Schrier e decisero di salire in vetta.

Il monte Suribachi, sull’isola di Iwo Jima, fotografato in tempi recenti. Sulla destra, dove la riva forma una conca, è visibile la spiaggia Green, luogo di sbarco del 28. Reggimento dei Marines.

Lungo il sentiero incontrarono il sergente Lowery, il quale stava scendendo e che li informò della fotografia che aveva scattato. Nonostante la delusione, il trio proseguì la salita. Si rivelò essere la scelta giusta, poiché quando giunsero in vetta essi videro il sergente Strank ed i suoi, intenti ad ammainare la prima bandiera ed a preparare un’asta su cui legare la seconda. Senza perdere tempo, Bill Genaust iniziò immediatamente a filmare quanto stava accadendo. Joe Rosenthal riuscì a scattare una fotografia proprio nel momento in cui i sei soldati americani alzarono il palo con la seconda bandiera. Prima di scendere dal Suribachi, sia Rosenthal che Campbell scattarono diverse fotografie che immortalavano i soldati americani intenti a celebrare l’evento con il Gung-Ho, una storpiatura tutta americana del motto in uso tra le cooperative cinesi dell’epoca e che stava a significare “Lavorare insieme-Lavorare in armonia” ma che, nel Corpo dei Marines, era utilizzata per celebrare momenti particolarmente felici e gioiosi.

Il filmato di Bill Genaust, che riprende il momento in cui la seconda bandiera a stelle e strisce viene issata sul Monte Suribachi il 23 febbraio 1945. Genaust morì nove giorni più tardi, mentre aiutava, con la luce della sua telecamera, un gruppo di Marines a ripulire una grotta difesa dai giapponesi.

In appena diciassette ore e mezza la fotografia apparve sui quotidiani statunitensi, riscuotendo un enorme successo e diventando immediatamente il simbolo delle vittorie americane sull’impero giapponese. Dopo la guerra l’immagine di Rosenthal apparve su francobolli, adesivi e poster che andarono letteralmente a ruba. Particolare curioso: Joe Rosenthal poté ammirare per la prima volta la propria fotografia solamente nove giorni più tardi, quando fece rientro all’isola di Guam, nelle Marianne.

L’enorme successo scaturito dalla foto, convinse il governo americano ad utilizzarla a scopi propagandistici ed economici. Washington richiese che i sei militari che comparivano nello scatto fossero fatti rientrare immediatamente in patria. Essi avrebbero dovuto prendere parte ad una vasta campagna di raccolta fondi, inquadrata nel settimo prestito di guerra nazionale. Purtroppo non tutti riuscirono a rientrare.

Dopo l’innalzamento della seconda bandiera, i sei militari continuarono a combattere, assieme ai loro commilitoni. Iwo Jima era ben lungi dall’essere conquistata. La battaglia terminò, infatti, oltre un mese più tardi, il 26 marzo. Il sergente Michael Strank ed il caporale Harlon Block morirono sotto il fuoco dell’artiglieria nemica, a poche ore di distanza uno dall’altro il 1° marzo del 1945, solamente 8 giorni più tardi lo scatto di Rosenthal. Il 21 marzo fu invece il soldato Frank Sousley ad essere ucciso da un colpo sparato da un cecchino giapponese.

I tre militari superstiti, il caporale Ira Hayes, il soldato René Gagnon e l’assistente di sanità della marina John Bradley rientrarono. Il primo a giungere a Washington fu René Gagnon, il 7 aprile, al quale fu immediatamente chiesto di fare i nomi degli altri cinque che apparivano sulla foto di Rosenthal. Egli indicò il sergente Michael Strank, il sergente Harry Hansen, Frank Sousley e John Bradley. Inizialmente il nome di Frank Sousley venne tenuto segreto per alcuni giorni, in quanto la sua famiglia non era ancora stata informata della sua morte. Gagnon non nominò invece Ira Hayes, poiché aveva ricevuto pressioni da parte di quest’ultimo con la richiesta di non farlo. Hayes, un indiano appartenente alla tribù dei Pima e di carattere estremamente riservato, non voleva nessuna pubblicità ed arrivò addirittura a minacciare fisicamente Gagnon se questi avesse fatto il suo nome. Tuttavia, dopo che il comando del Corpo dei Marines intimò a Gagnon di dire il nome del sesto soldato, pena un’incriminazione per disobbedienza, anche il nome di Hayes venne rivelato.

23 Febbraio 1945. Marines appartenenti al 28. Reggimento, 5. Divisione, festeggiano con il Gung-ho l’innalzamento della bandiera americana in cima al Monte Suribachi, ad Iwo Jima. (AP Photo/Joe Rosenthal)

Il 12 aprile il presidente Franklin Delano Roosevelt morì e non fece quindi in tempo ad accogliere alla Casa Bianca, Gagnon, Bradley ed Hayes, in quanto gli ultimi due giunsero a Washington solamente il giorno 19. Il giorno dopo furono quindi ricevuti dal successore di Roosevelt, Harry Truman. Il 9 maggio i tre presenziarono ad un simbolico innalzamento della bandiera al Campidoglio e, due giorni più tardi, iniziarono, da New York City, il tour nazionale per la raccolta fondi. Il 24 maggio Ira Hayes fu escluso dal tour in quanto i suoi problemi con l’alcool (problemi che aveva avuto anche precedentemente al suo arruolamento nel corpo dei Marines ma che era riuscito a tenere sotto controllo fino al suo rientro in patria) avevano già creato un certo imbarazzo. Hayes fece così ritorno alla sua unità, nel frattempo rientrata alle isole Hawaii. Gagnon e Bradley completarono il tour, che si concluse il 4 luglio, a Washington D.C. e che si era rivelato un enorme successo, avendo raccolto 26,3 miliardi di dollari di allora, il doppio di quanto era stato preventivato.

Ma, ancora prima che il tour avesse inizio, ci si rese conto dei primi errori nell’identificazione degli uomini che apparivano nella foto. Gagnon aveva indicato il sergente Harry Hansen come l’uomo sulla destra, intento ad infilare l’estremità dell’asta metallica nel terreno. Si trattava, invece, del caporale Harlon Block. La madre di Block, quando vide la fotografia sul giornale locale riconobbe immediatamente suo figlio, anche se veniva identificato con il nome di Harry Hansen. Protestò con suo marito e il fratello di Harlon, affermando “ho cambiato così tanti pannolini a mio figlio che riconoscerei il suo sedere ovunque! So che è mio figlio”.

Già il 19 aprile, parlando con un addetto alle pubbliche relazioni del Corpo dei Marines a proposito dell’identità dei sei uomini, Ira Hayes aveva affermato che il Marine alla base dell’asta era sicuramente Harlon Block e non Hansen. Hayes ne era assolutamente certo, in quanto conosceva benissimo sia Block che Sousley. Entrambi erano suoi grandi amici e facevano parte della sua squadra, appartenente al 2. Plotone della Compagnia E, mentre Harry Hansen era un membro del 3. Plotone. Il tenente colonnello ordinò ad Hayes di non farne parola con nessuno, in quanto, ormai i sei nomi erano già stati resi pubblici in modo ufficiale e sarebbe stato un cattivo segnale uscire ora con una correzione. Durante le indagini successive, tuttavia, l’ufficiale negò di aver mai dato quest’ordine ad Ira.

Nel 1946 Hayes si recò a casa della famiglia Block e disse alla madre di Harlon che suo figlio era uno dei sei che apparivano nella fotografia. La madre di Harlon inviò immediatamente al rappresentante del congresso Milton West la lettera che Ira le aveva consegnato. West, a sua volta, inviò la lettera al comandante del Corpo dei Marines, generale Alexander Vandegrift, il quale ordinò di aprire un’inchiesta.
John Bradley che, inizialmente, aveva confermato le identificazioni date da René Gagnon, esaminando di nuovo, con estrema attenzione, la fotografia, concordò sul fatto che non era Hansen il Marine alla base della bandiera. Bradley si ricordò che Harry, membro del suo stesso plotone, era stato precedentemente un paracadutista dei Marines e, durante la campagna di Iwo Jima, portava ancora con orgoglio i suoi scarponi da parà. L’uomo sulla destra della fotografia non li indossava e perciò non poteva trattarsi di Hansen.
Ira Hayes aggiunse che Gagnon si sbagliò perché era giunto in vetta al Suribachi all’ultimo momento, portando la seconda bandiera, mentre lui, Block, Strank e Sousley erano saliti insieme precedentemente posando un cavo telefonico e si trovavano già sul posto quando René arrivò.
Nel gennaio del 1947, al termine dell’inchiesta, il Corpo dei Marines comunicò ufficialmente che Harlon Block e non Harry Hansen si trovava alla base della bandiera.
Fu comunicato, inoltre, che Ira Hayes si trovava all’estrema sinistra della fotografia, posto che, fino ad allora, era stato assegnato a Frank Sousley.

La prima identificazione ufficiale dei sei soldati che appaiono sulla foto di Joe Rosenthal: soldato Franklin R. Sousley; soldato Ira Hayes; sergente Michael Strank; infermiere di 2. Classe John H. Bradley; soldato Rene A. Gagnon; sergente Henry O. Hansen. Il marine sulla destra fu successivamente identificato nel caporale Harlon Block (AP Photo/Joe Rosenthal)

Nel 2000 James Bradley, figlio di John, pubblicò il libro “Flags of our fathers” (pubblicato da Rizzoli con il titolo “Iwo Jima”) da cui Clint Eastwood trasse il suo bellissimo film. James Bradley utilizzò diversi documenti lasciatigli da suo padre, morto nel 1994 all’età di 70 anni e contattò amici e parenti dei soldati che apparivano nella fotografia, per ricostruire nei minimi dettagli l’avvenimento.
Questo anche perché l’argomento della bandiera era considerato tabù con suo padre. John non ne voleva parlare mai e, quando, come succedeva di frequente, qualche giornalista telefonava per richiedere un’intervista con uno degli eroi di Iwo Jima, i famigliari avevano l’ordine di rispondere sempre nello stesso modo: “John Bradley era fuori a pescare nel suo cottage”. Nelle rarissime occasioni in cui ne parlò, cambiò spesso la sua versione dei fatti, affermando che aveva alzato la bandiera, che stava per alzarla, che si trovava o che non si trovava in cima al Suribachi. James impiegò quasi quattro anni per raccogliere le informazioni necessarie alla stesura del libro.

Quello che James non poteva sapere ha dell’incredibile. Suo padre John, non era, nemmeno lui, parte della foto di Rosenthal. Nel 2014 l’Omaha World Herald pubblicò un articolo (che potete visionare a questo link) nel quale si diceva che due storici amatoriali, Eric Krelle e Stephen Foley, dopo un’approfondita ricerca, avevano stabilito che l’uomo al centro della fotografia non era John Bradley, bensì il soldato Harold Schultz. Grazie alla tecnologia, i due avevano potuto analizzare a fondo l’immagine, scoprendo alcuni dettagli che erano sfuggiti settant’anni prima. Ad esempio che John Bradley, essendo un infermiere della marina e non un combattente dei Marines, non portava il cinturone a cui agganciare la cesoia e le munizioni. L’uomo nella fotografia aveva il cinturone e, di conseguenza, non poteva trattarsi di Bradley. A riprova di ciò, anche osservando attentamente il viso, si poteva stabilire che non si trattava di Bradley. Dopo ulteriori approfondimenti identificarono, senza ombra di dubbio, l’uomo in questione. Si trattava di Frank Sousley. Egli non si trovava quindi, come annunciato nel 1947 al secondo posto da sinistra. Lì per lì i due ricercatori pensarono che Bradley fosse stato posizionato al posto sbagliato e che, quindi, si trovasse lui al secondo posto da sinistra, mentre Sousley si trovasse al centro. Colui che, a questo punto, avrebbe dovuto essere Bradley, appariva con il viso coperto e non era nemmeno possibile vedere se avesse o meno il cinturone, perciò era davvero difficile affermare il contrario. Ma i due non si dettero per vinti. Analizzarono, secondo per secondo, anche il filmato girato da Genaust e notarono che il secondo uomo aveva il laccio del casco slacciato (lo si nota, soprattutto, quando la bandiera è in verticale e gli uomini sulla sinistra lasciano la presa. Colui che dovrebbe essere Bradley, rimane, a questo punto, all’estrema sinistra e, dal suo caschetto, si vede penzolare il laccio. Spulciarono ogni fotografia relativa alla campagna di Iwo Jima in loro possesso (soprattutto Krelle ne aveva una buona collezione) e trovarono un altro soldato che, in quegli istanti, si trovava in cima al Suribachi e che aveva il laccio slacciato. Si trattava del soldato Harold Schultz. Schultz appare nella foto del Gung-ho ed è il quinto da sinistra. Tuttavia nessuno fece mai il suo nome accostandolo alla famosa fotografia di Rosenthal.

A questo punto, i due ricercatori si trovavano ad un punto morto. Erano infatti convinti della loro teoria, ma non sapevano come provarla. Se Schultz fosse stato, effettivamente, uno dei sei ad innalzare la seconda bandiera, visto che era sopravvissuto alla campagna di Iwo Jima, come mai in settant’anni non si era fatto avanti? Chiesero aiuto ad un giornalista dell’Omaha World Herald, il quale, tramite le sue conoscenza di numerosi storici di professione, riuscì a metterli in contatto con una delle figlie di Schultz. Egli, dopo la guerra, si era trasferito a Los Angeles, dove si era sposato due volte. Delle sue esperienze in guerra, in particolare di Iwo Jima, parlò molto raramente. Morì nel 1995 e lasciò alla figlia Dezreen una scatola contenente diverse fotografie. Una di queste era autografata da Joe Rosenthal ed era quella del Gung-oh. Sul retro erano indicati i nomi dei diciotto uomini che vi apparivano. All’interno della scatola trovarono anche la famosa fotografia dell’alzabandiera ma, purtroppo, sul retro non vi erano elencato nessun nome. La ricerca era nuovamente ad un punto morto. I due si incontrarono anche con il figlio di John Bradley, il quale disse loro che, nonostante la sensatezza delle loro motivazioni, gli sembrava davvero strano che suo padre, prima di morire, non avesse detto la verità. Inoltre, tutto il materiale e le testimonianze che aveva raccolto per scrivere il suo libro, lo portavano a credere che suo padre fosse davvero uno dei sei che appariva nella foto.

La discussione avuta con Krelle e Foley deve aver insinuato dei dubbi nella mente di James Bradley, perché, dopo essere ritornato da un lungo viaggio in Asia, contattò il New York Times affermando che ora era convinto che suo padre non fosse nella foto di Rosenthal, ma, quasi certamente, nella prima fotografia, quella di Louis Lowery e che l’avesse sempre ritenuta quella famosa in tutto il mondo.
Inizialmente il Corpo dei Marines non credette alla versione dei due appassionati storici, ma decise comunque di intraprendere un’ulteriore inchiesta.
Il 23 giugno 2016 dette loro ragione, annunciando ufficialmente che il caporale (nel 1945 soldato scelto) Harold Schultz era uno dei sei alzabandiera della famosa fotografia. John Bradley non ne faceva invece parte. Schultz fu posizionato come il secondo Marine, a partire da sinistra, davanti quindi ad Ira Hayes, posizione che, fino ad allora, era stata assegnata a Frank Sousley. Quest’ultimo, già precedentemente indicato all’estremità sinistra della foto e poi spostato al secondo posto da sinistra, fu questa volta indicato trovarsi al posto di John Bradley (il quarto da sinistra), dietro a René Gagnon.

Ma questa incredibile storia non finisce qui. Stephen Foley continuò le sue ricerche, aiutato dai registi Dustin Spence e Brent Westemeyer. Informarono le loro scoperte il Corpo dei Marines che, ancora una volta, dovette annunciare un altro errore di identificazione dei sei soldati che apparivano sulla foto di Joe Rosenthal.
Il 16 ottobre 2019 venne comunicato ufficialmente che René Gagnon non era nella fotografia. Gagnon, colui che aveva originariamente identificato i nomi dei sei militari, si trovava, secondo la versione ufficiale, dietro a John Bradley. Di lui si vedono solamente la mano e la gamba sinistra, il braccio e la mano destra ed il casco. Ancora una volta con l’aiuto della tecnologia, Foley ed i due registi riuscirono ad identificare una fede nuziale alla mano sinistra. Gagnon non era sposato a quel tempo e quindi non poteva trattarsi di lui. Ulteriori analisi del filmato e di fotografie portarono, in modo inequivocabile, ad identificare nel caporale Harold Keller (sposatosi, tra l’altro, nel 1944) l’uomo che, fino ad allora, tutti credevano fosse René Gagnon. Quest’ultimo, purtroppo, era morto d’infarto nel 1979, a 54 anni e non poteva quindi fornire ulteriori spiegazioni sulle cause che avevano portato a questo errore di identificazione.

Sarà questa la parola fine di questa incredibile saga? Solo il tempo ce lo dirà.
Ma perché tanti errori nell’identificare chi era effettivamente in quella foto? Il fatto che siano stati eseguiti due alzabandiera ha certamente contribuito alla confusione. Inoltre, non bisogna dimenticare che essi ebbero luogo in momenti concitati, quando la battaglia per la conquista dell’isola era ancora in pieno svolgimento e vi era un grande andirivieni di truppe. La morte di alcuni dei protagonisti ed il desiderio di alcuni sopravissuti di non apparire in pubblico non ne agevolò certamente la corretta identificazione.

La definitiva identificazione dei sei membri che eseguirono l’alzabandiera ritratto dalla fotografia di Joe Rosenthal.

Mi sento in dovere di terminare questo articolo parlando del triste destino a cui andrò incontro Ira Hayes. Dopo essere rientrato alla sua unità, fu promosso caporale il 19 giugno. Al termine della guerra fece parte delle truppe di occupazione del Giappone. Rientrato in patria nell’ottobre del 1945, si congedò con onore dal Corpo dei Marines il 1° dicembre dello stesso anno.
Tornato alla vita civile, piombò ben presto in una forte depressione, causata soprattutto dai sensi di colpa che si addossava per il fatto che il suo grande amico Harlon Block non era stato celebrato come meritava, essendo uno dei sei che apparivano sulla famosa fotografia. Si rifugiò nuovamente nell’alcool e cercò di tirare avanti lavorando nei campi nei pressi della riserva Pima, in Arizona. A volte capitava che qualche turista si recasse fin lì per porgli delle domande e per scattare delle fotografie con lui. Sebbene non parlasse quasi mai dell’alzabandiera di Iwo Jima, raccontava volentieri della sua vita nei Marines.
Nel 1946, come già accennato, si recò in Texas a rendere visita alla famiglia Block. Successivamente lasciò la riserva e svolse diversi lavori, tra cui l’autista personale di Elizabeth Martin, ex-moglie di Dean Martin. Non riuscì mai a smettere di bere, tanto che fu arrestato ben 52 volte per ubriachezza molesta. Una volta, a proposito della sua dipendenza, disse: “Ero malato. Credo che fossi sul punto di crollare al pensiero che tanti miei bravi compagni fossero morti. Essi erano migliori di me, eppure non tornarono a casa, mentre io si.”
Nel 1954 era invece sobrio, quando partecipò all’inaugurazione del memoriale dei Marines, a Washington D.C. il 10 novembre del 1954.
Rientrò alla riserva e, senza smettere mai di bere, passava le giornate giocando a carte con i suoi due fratelli e con i suoi amici.
La mattina del 24 gennaio 1955, dodici giorni dopo il suo trentaduesimo compleanno, fu trovato morto, a terra, a fianco di una casa abbandonata in mattoni di argilla, nei pressi della sua abitazione a Sacaton, Arizona. Sebbene il coroner e la polizia attribuissero la sua morte ad un uso eccessivo di alcool che ne aveva causato lo svenimento e la successiva, lunga esposizione al caldo sole dell’Arizona, suo fratello Kenneth era convinto che la morte avvenne come conseguenza di un alterco avuto con Henry Setoyant, un altro indiano Pima con cui aveva già avuto una violenta discussione il giorno precedente. Non vi fu nessuna autopsia ed il caso venne chiuso. Venne seppellito al cimitero militare di Arlington, in Virginia.
Il cantante folk Peter La Farge scrisse in suo onore una canzone, intitolata The Ballad of Ira Hayes, che venne ripresa anche da Bob Dylan e Johnny Cash.

Per finire un aneddoto curioso. Nel 1949, la casa produttrice Republic decise di girare un film incentrato sull’invasione e la conquista dell’isola di Iwo Jima. Come protagonista fu scelto John Wayne, già apparso in numerosi film della stessa casa cinematografica. Il particolare curioso di questo film, godibilissimo ancora oggi nonostante l’età, è che presero parte alle sue riprese anche dei reduci di quella battaglia. Il tenente Harold Schrier, che guidò la pattuglia sul Suribachi e che alzò la prima bandiera, impersona sé stesso.
Appaiono inoltre John Bradley (a cui John Wayne consegna la bandiera da alzare una volta conquistata la vetta), Ira Hayes e René Gagnon.

John Wayne, accanto a John Bradley, durante le riprese del film “Sands of Iwo Jima”.